Mio fratello nacque sette anni dopo di me, quindi è corretto pensare che quando avvenne questa vicenda io avessi circa sette anni e sei mesi, mentre lui solo sei mesi.
Quel gennaio del ‘93 pioveva a dirotto, e per le vie della città vecchia di Barletta l’acqua si addensava sull’asfalto creando piccoli fiumi e gorghi ai bordi delle strade. Le case richiamavano un’architettura tipica del sessanta, colori pastello, edifici che non superavano il primo piano per limiti architettonici e per gestire meglio il calore, strade vista mare per gestire meglio il vento proveniente dalle spiagge. Il silenzio della giornata era interrotto dal vagito disperato di un neonato.
Erano giorni in cui non c’era modo di fargli smettere di piangere. Mesi tranquilli, poi improvvisamente una rottura degli schemi senza alcuna razionale giustificazione. Lacrime e lacrime, grida, anche nel cuore della notte. I miei genitori erano distrutti, persino disperati. E in questi casi i consigli degli anziani vertevano solo su un punto, su un’antica credenza, differente da città a città ma univoca nel suo credo, l’esorcismo. Era una tradizione nata ben prima della classica medicina e variava da territorio a territorio, in Puglia: se venivi colto da un malessere inspiegabile, era probabile fossi posseduto dai Vermi (più a sud) o dal demone dello Spavento, a Barletta.
Come sostenevano le anziane della città, questo frutto degli inferi si annidava all’interno del malcapitato cibandosi delle sue energie e della sua felicità. A lui erano spesso associati disturbi di natura digestiva e polmonare, nonché diversi attacchi febbrili. Solo l’intervento di una donna adeguatamente formata poteva salvare il malato. La tradizione vuole che la prescelta, solo se in punto di morte, insegni questa cura solo a un’altra bambina reputata degna, e spesso solo con una lettera con le diverse istruzioni. Il rituale di purificazione è solitamente svolto in una stanza arredata con un grande tavolo illuminato, mai di domenica e possibilmente lontani da Pasqua. L’untrice deve aver trascorso almeno tre giorni bevendo camomilla, allungata con sette foglie di alloro. E infine, il malato deve essere battezzato e sveglio. Una serie di regole puntuali e tutte parimenti importanti.
Portammo mio fratello dalla nostra vicina di casa. Era la prima volta che vedevo il suo salotto, il pianterreno di casa decorata da un gran numero di crocefissi e di un arredamento molto più essenziale. Sul tavolo centrale, una tovaglia di fiori ricamati e niente più, mentre dall’alto pendeva un candelabro in ferro battuto e con finte candele dalla luce elettrica tremolante. Il pianto era incessante, ma incurante di questo mia madre, donna apprensiva e con il viso sfigurato dalla stanchezza, lo lasciò esattamente sotto il lampadario. La signora, come stesse accusando i suoi settanta e più anni tutti di colpo, sussurrava minacciose parole che capii dopo essere preghiere, con una filo di voce profonda, avanzando con passi lenti ma pesanti. Appoggiò la mano sull’addome nudo di mio fratello, praticando un segno della croce. Sudai di una serie di brividi freddi, mentre dentro di me rimbombava il battito del mio cuore.
Un’ombra si allargò dal petto del bambino, come una pozzanghera di pece, e da quello scorcio di abisso, lontani, due occhi rossi si aprirono.
Mi guardarono.
La bestia, colei che era già conosciuta col nome di Spavento, demonio infernale, si muoveva come una massa informe sul cuore di mio fratello, un’ameba che s’allargava rapidamente muovendo i suoi tentacoli sulle costole, sui fianchi, sul ventre. Ad ogni preghiera, ad ogni segno della croce, sentivo un urlo provenire da una galleria lontana, straziante, disumano. Quell’ammasso di disumanità e cattiveria sembrò sollevarsi dal corpo del suo ospite, come una poltiglia densa e viscosa che faticava a separarsi dalla sua vecchia casa. Insofferente al trattamento del suo esorcista, il diavolo era ormai una macchia infame aggrappata al cuore di mio fratello.
Le luci fibrillavano, la polvere si sollevava, e l’anziana versò poche gocce di acqua benedetta ripetendo la sua preghiera sul cuore di mio fratello. Tanto bastò perché l’ombra si sollevasse verso l’alto, senza peso e in fuga, fissandomi intensamente dalle sue profondità nere, restando legata con un solo flebile tentacolo. La donna prese delle forbici da sarta e tagliò con ampi fendenti l’aria su quel tavolo, recidendo il legame tra la creatura e il bambino.
L’ombra si mosse d’improvviso, grande poco più di una fiammata, cercando la fuga da quel salotto affollato. Legò i suoi occhi rossi a me, schizzando verso la mia posizione ma deviando la sua
traiettoria quando l’anziana gettò la sua acqua benedetta su tutta la stanza. Ci fu solo un lontanissimo stridio, e il buio scivolò oltre lo stipite della prima porta aperta, confondendosi con la luce per poi dissolversi.
Ci fù il silenzio.
Passarono anni, mio fratello non ebbe conseguenze da quegli eventi. Per molti dei presenti quello fu il giorno in cui ci limitammo ad accompagnare un’antica tradizione verso i tempi moderni. Io cambiai. Mi resi conto che solo io ero riuscito a vedere quella creatura. E ora, nel corso delle mie giornate, a volte, potevo incrociare lo sguardo con qualcuno, per strada, anche ora da adulto, e
notare su di lui l’ergersi di un’ombra nera. Un’ombra che toglie tutto. Un’ombra che ti deforma in volto e ti rende pesante. E dentro quell’ombra, dentro quel pozzo, due lontani occhi rossi. Che mi fissano.
Due occhi rossi, che un giorno verranno a prendermi.